In questi giorni sto finendo un romanzo di fantascienza del 2002 che avevo colpevolmente trascurato, Altered Carbon di Richard K. Morgan, contenente il limite forse più estremo nell’immaginare un impianto cibernetico. In un futuro non troppo remoto – si narra – quasi tutti gli esseri umani possiedono una “pila corticale” innestata alla nascita nella sommità della colonna vertebrale, capace di creare una copia digitale della personalità e trasferirla alla bisogna, per motivi anche futili, su corpi biologici o sintetici detti “custodie”; persino il viaggio tra pianeti avviene in questo modo, scaricando la coscienza su custodie pronte all’uso. I paradossi sono ormai all’ordine del giorno, dalla possibilità di clonare la propria anima ai cattolici che credono che la stessa si disperda al primo trasferimento, all’immagazzinamento in un gigantesco store immateriale dove le persone possono essere sottoposte a pratiche di realtà virtuale, magari senza accorgersene. Le torture possono sembrare reali, in quell’ambiente, e le pene dei carcerati durare indefinitamente, nel flusso digitale. Tra le altre cose, Altered Carbon verrà trasposto in una serie TV griffata Netflix, programmata per il prossimo anno (potenzialmente anche per altre stagioni, trattandosi di una trilogia di romanzi), laddove sarà interessante rilevare come e quanto ne sarà stemperato il livello di sesso e violenza, davvero ai massimi livelli, così come la resa del suo magnifico linguaggio hard boiled in prima persona.
Ma non è questo l’argomento dell’editoriale: Altered Carbon (in Italia il titolo è stato cambiato in Bay City, per motivi che vorrei qualcuno mi spiegasse) rappresenta la punta più avanzata della fantascienza cyberpunk in cui la carne si mescola al silicio, come proiezione di un mondo che, oggi, stenta persino a digerire i caschetti per la realtà virtuale e aumentata. Accessori di questo tipo vengono ancora giudicati invasivi dalla maggior parte delle persone, comprese quelle più naturalmente vicine alle tecnologie audiovisive come lo sono i videogiocatori, nonostante assomiglino ai caschetti di Ready Player One, di Avalon o anche dello stesso Altered Carbon, che non dimentica di inserire questi dettagli nel suo affresco malignamente futuribile, accoppiando il visore a una serie di elettrodi che manipolano il cervello.
Quest’ultimo dettaglio deriva da studi veramente in atto e che, al momento, hanno avuto validi risultati “solo” per il controllo di semplici periferiche o per il recupero dell’udito attraverso un mix tra impianto interno e impulsi esterni (per la vista è ben più difficile, ma i progressi non mancano). Ci sono poi interventi di recupero delle funzioni motorie attraverso arti meccanici, connessi direttamente all’apparato nervoso, ma nulla che faccia ancora pensare a innesti impiantati per volontà di superamento dei limiti umani, come in Deus Ex o nelle pazzesca catena sociale di Altered Carbon (dominata dai “mat”, contrazione slang di matusalemme, ricchi borghesi che operano un backup continuo della pila corticale, alla ricerca dell’immortalità). Per quel che mi riguarda, non so nemmeno se sia un bene o un male, nel senso che persino io, che nel cyberpunk ci sguazzo e passo settimanalmente diverse ore nei mondi virtuali, non vivo benissimo il pensiero di un intervento chirurgico invasivo e pieno di conseguenze esistenziali, a prescindere dallo scopo estremo immaginato da Morgan, nemmeno per realizzare i miei sogni più antichi di “esploratore cibernetico”. Ed è un po’ quello che è successo a tanti della mia generazione con la realtà virtuale, per quanto non ci sia da tagliuzzare alcun tessuto: magari l’hanno sognata da ragazzi, ma quando si son trovati di fronte Oculus Rift o HTC Vive ne hanno subito riconosciuto i limiti fisici, sull’onda di un’abitudine al gaming spesso sconfinante con il classicismo più integralista.
La tecnologia più conturbante della fiction è quella che ti violenta nel fisico e nella mente
Si tratta, tuttavia, di un modo per interpretare la stessa naturale repulsione per il “sacrilegio del tempio corporeo”, che trova riscontro anche in un episodio dell’ultima stagione di Black Mirror, Caduta Libera, in cui l’invasivo rapporto coi social passa attraverso lenti a contatto interfacciate con una nuova generazione di smartphone. Sempre dal geniale serial inglese, però, la storia che mi ha maggiormente incasinato il cervello (con sottile goduria, s’intende) è stata Bianco Natale, episodio speciale per le feste natalizie del 2014 in cui tutti quanti hanno ormai un innesto chirurgico nelle cornee, per arrivare allo stesso risultato e molto di più, persi in un coacervo che mi ha ricordato le recenti tematiche di Observer (e anche Altered Carbon, un pochetto, con una gustosa variazione alla pila corticale). La tecnologia più conturbante della fiction, insomma, è quella che ti violenta nel fisico e nella mente, in una sorta di educazione subliminale che dalla fantascienza è passata al giudizio comune, comunque ignaro di quel che sarà e di come ci verrà proposto. Magari i dispositivi interni diverranno status symbol come quelli usati dal perfido Jon Hamm in Bianco Natale, oppure passeranno dall’evidente utilità medica alla pratica universale di tutti i giorni, o ancora rimarranno esterni perché non ci sarà bisogno di altro, con onde che arriveranno al cervello producendo “allucinazioni controllate”, o infine permetteranno di guidare esoscheletri e macchinari di ogni tipo. Una cosa è certa: se sopravviviamo a Kim Jong-un o Donald Trump, perfetta rappresentazione della nostra folle adolescenza tecnologica, un modo verrà trovato senz’altro.