La misura della bellezza

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I momenti di viaggio sono sempre quelli in cui, volente o nolente, finisci per avere degli insoliti attimi di dilatazione temporale e guardi necessariamente le cose da una prospettiva diversa. Nella lunga trasferta in macchina verso Lucca, tra un discorso e l’altro con gli amici, raccontavo dell’ottima intuizione avuta da Ubisoft con Assassin’s Creed: Origins, e scherzavo sul fatto che – essendomi tornata la scimmia per la saga – andare in fiera avrebbe potutto essere deleterio (anche se in realtà al momento è tutto sotto controllo).

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Non si riesce quasi mai a considerare il lascito di un videogame nella vita di un giocatore

Così facendo, la mente è tornata immediatamente al gioco, e ho cominciato a pensare a una delle tombe segrete che mi sono lasciato indietro prima di partire. Sì, perché uno degli aspetti che non si riesce quasi mai a considerare completamente, presi dai tempi ristretti in cui spesso e volentieri ci si trova compressi, è il lascito di un videogioco, la sua eredità nella vita di un gamer. Nello scrivere la recensione di Assassin’s Creed: Origins, uno dei fattori determinanti per il voto generoso è stato sicuramente il fatto che, una volta conclusa la storia principale e buona parte delle quest secondarie, avessi ancora tanta voglia di giocarci. Tra l’altro, io non sono esattamente un trophy hunter, né un completista compulsivo, eppure, un po’ come successo con Horizon Zero Dawn, “uscire” dall’open world di Ubisoft mi risulta difficile, l’idea di andarmi a cercare tutte le tracce della Prima Civilizzazione un po’ mi ossessiona, e l’antico Egitto un po’ mi manca quando non scorrazzo sotto il suo sole cocente. Certo, a farmi compagnia ho Super Mario Odyssey che è venuto in viaggio con me, e ho pure da lavorare su quella droga sintetica chiamata Football Manager 2018, però se avessi la mia PlayStation 4 a portata di mano, non nascondo che mi farei serenamente un paio di ore notturne post-fiera nel deserto.

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Questo per dire che a volte la nostra routine lavorativa (intesa come quella della stampa videoludica) non ci lascia il giusto spazio per godere appieno della bellezza di alcune cose, e contemporaneamente forse non riusciamo a essere esaustivi nel raccontarla.

Il racconto di un gioco e della sua bellezza non dovrebbe finire con la sua recensione

Poi certo, nulla vieta di tornarci su come sto facendo io in questo momento, ma nel momento in cui i videogiochi diventano esperienze stratificate, il coverage su un titolo (inteso come racconto del suo ciclo vitale) a volte dovrebbe spingersi ben oltre la data d’uscita, e non solo quando si parla di giochi multiplayer come il recente Destiny 2. Paradossalmente, invece, il racconto dell’arco produttivo a volte inizia ben prima che si abbia da dire qualcosa di davvero interessante e unico, e finisce quando le vere note di unicità dei giochi diventano patrimonio comune, argomento di discussione vera.

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Se la misura della bellezza, spesso e volentieri, è data anche dalle sfumature di senso che un prodotto esprime a posteriori, il nostro compito dovrebbe essere pensare a qualche formula interessante per raccontarle. Si tratta di un discorso ideale, difficile da mettere in pratica in un modus operandi sensato e produttivo, per carità, perché cozza con molti meccanismi dell’industry e con i suoi tempi scadenzati da un’agenda internazionale che di certo non può essere modificata. Eppure, nei momenti di dilatazione temporale, quando parli con i colleghi nei non-luoghi delle fiere, quando c’è il tempo per far decantare i veri “sapori” dei videogiochi e definire per bene tutte le sfumature possibili, emergono sempre i tempi più interessanti, ma spesso restano lì, e ho come l’impressione che a volte ci perdiamo qualcosa. Però poi, tra due giorni si torna alla vita normale, e non avrò più il tempo di pensarci.

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