Il single player è morto? Viva il single player!

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L’industria dei videogiochi è spesso una girandola impazzita, e quello che va bene oggi non è detto che andrà benissimo domani. D’altronde nessuno ha una palla di cristallo e la ricetta perfetta per creare e vendere un videogioco la hanno in pochi.

Mi fa sorridere, però, rileggere le dichiarazioni sul single player delle ultime due settimane nel giorno successivo al “Dark Souls dei day-one” (cit. Gianluca Loggia, aka l’irreprensibile Ualone) che ha visto arrivare sugli scaffali (e direttamente a casa di molti di noi) Super Mario Odyssey, Assassin’s Creed: Origins e Wolfenstein II The New Colossus, tre giochini simpatici da affrontare rigorosamente da soli (certo, si può condividere Cappy con un amico, per carità, but still…) e goderne in abbondanza. Una giornata senza eguali in un anno a dir poco folle in termini di qualità, che ha segnato proprio la grande affermazioni delle opere in single player, perché avere in otto mesi tre open world come Horizon, Zelda e Origins è una roba da leccarsi i baffi, così come potersi permettere due ritorni elegantissimi come le espansioni stand alone di Uncharted e Dishonored con un format tutto nuovo e da sfruttare nei prossimi anni. Potrei citare anche RiME, Nier: Automata, Hellblade e tanti altri, e troverei un unico grande comune denominatore tra i titoli citati: la voglia di stupire il giocatore.

Chiaramente, c’è chi lo fa di più e chi lo fa di meno, perché budget e talento a disposizione dei diversi studi è diverso, ma la ricezione di critica e pubblico (tra l’altro, nel caso del gioco di Ninja Theory, il pubblico ha dimostrato una sensibilità sorprendente, spesso maggiore di quella critica) racconta di un 2017 in cui sono emersi chiaramente i desideri dei giocatori: storie meritevoli di essere giocate (e non “solo” guardate), ma soprattutto gameplay coinvolgenti, e in questo il ruolo di Switch mi sembra evidente. In un solo anno di vita della nuova console, Nintendo ha mostrato una lettura della realtà decisamente più lucida di molti altri competitor, e i risultati, in termini di qualità, sono evidenti.

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I giocatori vogliono emozionarsi, divertirsi, sentirsi al centro dell’esperienza, a prescindere dal fatto di giocare da soli o in compagnia.

I giocatori vogliono emozionarsi, divertirsi, sentirsi al centro dell’esperienza, a prescindere dal fatto di giocare da soli o in compagnia. Destiny 2 va benissimo, Ultimate Team è il Sacro Graal dei calciofili e l’universo dedicato agli eSport sta diventando sempre più inclusivo. È una stagione grandiosa per i videogiochi in tutti sensi, per cui sindacare su cosa funzioni in assoluto mi sembra voler interpretare forzatamente il mercato e giustificare una serie di scelte poco lungimiranti. Il concetto di servizio, come sottolineato da Square, è importante, ma lo è più per i publisher o i giocatori? Mi sembra palese che l’obiettivo di tutti sia controllare i costi e, se possibile, monetizzare più volte o per un tempo prolungato un singolo prodotto, per assorbire le ingenti spese che la sua creazione comporta. Non ci vuole un genio a capirlo, e sarebbe inopportuno e immaturo pensare che i publisher non rispondano a logiche di business, ed è chiaro che creare giochi che si trasformino in piattaforme “cash cow” è una possibile strada. Pensare che sia l’unica strada verso il successo, però, è talmente semplicistico che quasi si fa fatica a credere.

Eppure la convinzione è diffusa, visto che persino Manveer Heir, ex di BioWare, ha sottolineato come anche EA si stia rivolgendo molto di più al mercato multiplayer. Ribadisco, per i bei giochi c’è sempre spazio e va benissimo, ma pensare che la fetta di mercato del multigiocatore sia grande come quasi tutta la torta è abbastanza opinabile: se il 27 ottobre è realistico che io abbia acquistato almeno due dei tre grandi giochi usciti, per spolparmeli nel mese successivo, è altamente improbabile che nel corso di un anno compri più di un paio di giochi da giocare online. Il motivo? Lo stesso per cui i publisher guardano a quel tipo di mercato, ovvero la possibilità di spalmare i contenuti, a cui si aggiunge l’aspetto sociale del gioco e la creazioni di gruppi e gilde. Nel momento in cui il mercato si polarizza su Destiny 2, Overwatch, FIFA, Playerunknown’s Battleground, i vari MOBA e titoli di “nicchia” come Rainbow Six Siege o lo stesso Gran Turismo Sport, quanto spazio c’è per il successo di nuovo giochi? Per saperlo, citofonare Battleborn o CliffyB.

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Ammettere di aver bisogno di un nuovo modello produttivo o di vendita per le esperienze in giocatore singolo è sensato e doveroso

Insomma, il riciclo delle esperienze multiplayer è decisamente più lento, e la soglia di qualità necessaria a far abbandonare il proprio gioco del cuore diventerà sempre più alta, saturando rapidamente anche quel tipo di mercato. Di contro, per le esperienze in singolo, quelle belle, c’è sempre spazio, proprio perché finiscono prima. Di tutte le dichiarazioni un po’ forti lette in questi giorni, quella più sensata mi sembra quella di Shannon Loftis, general manager di Microsoft Publishing, che durante un’intervista pubblicata su Gamespot, ha dichiarato come “gli aspetti economici di un titolo single player che racconti una storia coinvolgente e che impegni molte ore siano più problematici. I giocatori si aspettano una qualità sempre più alta e una grafica migliore”.

Ecco, se sul discorso durata e grafica mi permetto di dissentire, nel senso che tutto va sempre commisurato al tipo di gioco offerto e alla qualità del gameplay, il discorso della sostenibilità del mercato, invece, ha senso. Ammettere di aver bisogno di un nuovo modello produttivo o di vendita per le esperienze in giocatore singolo è sensato e doveroso, ma non è un problema dipendente dai giocatori e dai loro desideri, quando più una questione di economia politica e della cosiddetta scelta ottima. Invece di parlare di morte del single player, avrebbe molto più senso ipotizzare sistemi virtuosi per monetizzare su singole produzioni, senza fiondarsi meramente sugli acquisti in-App, che rappresentano davvero una soluzione banale, oltre che rischiosa. Anche in quel caso, la chiave è non intaccare la fruizione di chi preferisce godersi, rispettabilmente e comprensibilmente, l’esperienza liscia. Una strada ce l’ha mostrata Hellblade, con una produzione “doppia A”, un’altra invece è quella adottata da Bethesda/Arkane Studios e Sony/Naughty Dog, con la cara e vecchia espansione old style. Comunque la si metta, in ogni caso, la verità è che in un periodo così florido dal punto di vista dell’offerta, è semplicemente più alta l’asticella della qualità necessaria a imporsi sul mercato. È anche vero, però, che è in periodi del genere che emerge il genio. Per questo motivo, amici, aspettiamo e godiamoci i nostri giochi, in single o in multi che siano.

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