Persona 5 - Recensione

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Urca, è proprio vero che i tempi cambiano: una volta i videogiocatori, additati dal resto del mondo come sfigati per antonomasia dalle mani nocciolate a cui le gioie del sesso sarebbero state perennemente precluse, non si facevano problemi a spernacchiare a loro volta gli appassionati di JRPG, in particolare di serie esoteriche come Shin Megami Tensei o la sua quasi-spinoff Persona. Ricordo ancora il Todeschini farsi beffe di me quando, tra un Quake e un Civilization (passatempi più consoni ai fedeli dell’ortodossia PC), cercavo di illustrargli i pregi di questa serie così cara agli adolescenti che, auto-reclusi ormai da mesi, si facevano passare i pasti dalla mamma (previa riduzione in cialde sottili) sotto la porta della loro cameretta. O tempora! Oggi, a vent’anni esatti dalla nascita della serie, il quinto capitolo di Persona è atteso non dico come fosse l’ultimo Call of Duty, ma certamente come un titolo importante nel panorama videoludico mondiale… tant’è vero che sono qui a parlarvene sulle patinate schermate di un prestigioso sito.

PERSONE DI UN CERTO PREGIO

Ma bando alle ciance e veniamo al punto, anche perché il Kikko mi ha avvertito che dovrò limitare la lunghezza del pezzo (sarà dura). La storia comincia in medias res, utilizzando uno stratagemma tipico dei film noir, ovvero l’interrogatorio a eventi ormai precipitati, nella fattispecie a criminale ormai catturato: per capirci, proprio come avviene nel film Mildred Pierce del 1945 (per cui Joan Crawford ha vinto il suo unico Oscar), o ancora meglio in Double Indemnity del 1944 (in Italia “La fiamma del peccato”), in cui il colpevole, gravemente ferito, detta addirittura la sua confessione al dittafono! Li avete visti, no? Sono capolavori, non deludetemi. In ogni caso, l’intera partita si svolge come un flashback, e il criminale di cui sopra è il protagonista del gioco, ovvero il nostro avatar: uno studente di scuola superiore che a tempo perso si diletta nel furto… sì, ma nel furto di cuori!

Ogni dungeon è un “palazzo” costruito intorno ai desideri distorti di un personaggio

È questo infatti lo spunto narrativo di Persona 5: ogni dungeon è infatti un “palazzo” costruito intorno ai desideri distorti di un personaggio. Questo mi porta ad anticiparvi una delle innovazioni centrali di questo quinto capitolo: i dungeon non sono più generati casualmente! Al contrario, ogni palazzo è fortemente caratterizzato, proprio perché corrisponde al corrotto panorama mentale di un figuro spregevole cui i nostri personaggi dovranno “rubare il cuore”, costringendolo a crollare e a confessare le proprie malefatte nel mondo reale. Di tutte le migliorie introdotte, questa è certamente quella che ha un impatto maggiore sull’esperienza ludica, che se ne giova in modo drastico. Vogliamo dirla tutta? Dopo aver sperimentato l’ebbrezza di conquistare palmo a palmo i diversi palazzi di Persona 5, ognuno con una mappa ben precisa, un aspetto grafico peculiare e varie sorprese accortamente sparse al suo interno, l’idea di tornare ai labirinti generati proceduralmente sembra quasi un’eresia. Insomma, abbiamo già trovato un difetto a Persona 5: ci rovinerà irrimediabilmente il ricordo dei predecessori!

TUTTO IL BELLO DELLA SCUOLA

Com’è tipico della serie, alle scorribande nei dungeon si alternano momenti di vita sociale, e in particolare scolastica, che ci permettono di approfondire le nostre relazioni e l’amicizia con diversi personaggi alquanto pittoreschi. Tra questi ovviamente ci sono i nostri compagni di avventure, ma anche altre conoscenze di diversa origine, e non manca neppure l’occasione (anzi, più d’una) per qualche amorazzo adolescenziale. Tutto questo non rappresenta un inutile contorno, ma al contrario ci offre l’occasione di acquisire nuove abilità e potenziare la nostra capacità di costruire nuove Persone (che dovrei scrivere più correttamente “Personae”, lo so, ma insomma, non facciamo i precisini). Come definire le Persone a uso dei profani? Diciamo che sono sfaccettature nascoste della psiche che, portate alla luce, permettono di scatenare tutte le potenzialità recondite di un personaggio e attivare così i poteri nascosti nella sua anima (in pratica: scatenare incantesimi con cui mazzulare i cattivi).

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A differenza dei precedenti capitoli, qui si parte subito in un’atmosfera cupa

A differenza dei precedenti capitoli, in cui la vita scolastica tra lezioni, test e attività extracurricolari era piuttosto sonnacchiosa, fino a sfiorare pericolosamente una oltremodo realistica ma non gradita noia, qui si parte subito in un’atmosfera cupa: infatti Stepanji Kabouri (un nome dell’avatar che mi ha dato molta soddisfazione e che invito tutti a utilizzare) è sì uno studente appena trasferito, come da spunto classico della saga, ma il suo trasferimento ha una ragione ben precisa, e cioè sfuggire alle conseguenze di una querela sporta da un matusa gradasso che Stepanji stesso ha malmenato quando l’ha sorpreso a imporsi con la violenza su una malcapitata damigella. Ebbene, quando arriviamo nella nuova scuola, tutti sanno già il perché e ne parlano tra loro, bisbigliando nei corridoi e additandoci come un pericoloso delinquente. Gli adulti non sono da meno, e anzi sembrano tutti aver già deciso che Stepanji è una causa persa, un perdigiorno senza speranza. È un’esperienza estremamente sgradevole, che comunica con grande forza la sensazione dell’istituzione scolastica come luogo della diceria maligna, dell’esclusione del diverso, delle cricche impegnate ad accanirsi contro uno studente caduto in disgrazia. Un bel colpo all’idea utopistica di scuola come luogo di spensierata gioventù e bei ricordi che infesta molte produzioni, soprattutto giapponesi.

UNA QUESTIONE DI STILE

Ma bando alle tristezze, parliamo un po’ di cose belle. Viviamo certamente in un’epoca felice per i giochi (e i relativi recensori), visto che ci siamo lasciati alle spalle i tempi in cui ogni considerazione sulla grafica si riduceva di fatto a una disanima delle caratteristiche e innovazioni tecniche apportate da un titolo in uscita. Oggi possiamo giustamente rivolgere l’attenzione agli aspetti più propriamente estetici, allo stile, alla creatività: in poche parole agli aspetti artistici. E di stile Persona 5 gronda letteralmente: ovunque rivolgiamo lo sguardo, dalla grafica in senso proprio alla musica, dall’interfaccia al character design, alla peculiare scelta dei colori, quello che vediamo è classe profusa a piena mani: del resto, per constatare che siamo di fronte a un prodotto eccezionale sotto quest’aspetto basta guardare il trailer qui sotto.

Ora che abbiamo inquadrato lo stile generale di gioco nell’alternanza tra scorribande nei dungeon e sviluppo della rete sociale, e abbiamo lodato come merita il design grafico e sonoro del titolo, è tempo di esaminare più da vicino le dinamiche ludiche vere e proprie. Persona 5 si basa su un combattimento a turni incentrato sulla scoperta e sul relativo sfruttamento delle resistenze (e debolezze) di una miriade di nemici sempre diversi. Una volta apprese le caratteristiche degli avversari, l’azione è relativamente semplice: basta “usare l’attacco giusto”, per così dire. Per far questo si possono sfruttare le abilità dei compagni o quelle del protagonista, che ha la capacità unica di utilizzare più Persone.

Naturalmente le cose non sono banali come le ho descritte: occorre che il compagno sia disponibile e che abbia punti mana da spendere, e/o che il nostro protagonista (Stepanji, vi ricordo) abbia la Persona adeguata nel suo “carnet” in costante evoluzione. Per rendere l’esperienza più ricca sono presenti anche attacchi corpo a corpo, “armi da fuoco” (in realtà giocattoli, ma nel dungeon funzionano davvero!) e altre opzioni di contorno, come la scelta della squadra che ci accompagna nell’esplorazione. Quando tutti i nemici sono stati colpiti nel loro punto debole, si può sferrare un attacco collettivo super-potente o negoziare per ottenere oggetti, denaro o addirittura per acquisire i poteri del mostro in questione, trasformandolo nell’ennesima Persona al nostro servizio.

Persona 5 si basa su un combattimento a turni incentrato sulla scoperta e sul relativo sfruttamento delle resistenze (e debolezze) di una miriade di nemici sempre diversi

E qui arriviamo al “succo” strategico di Persona 5. Oltre agli scontri, infatti, c’è tutta una fase di gestione della nostra collezione di Persone, che oltre ad avere determinate abilità (che aumentano con l’esperienza) si possono fondere per creare altre Persone ancora. Ognuna di queste appartiene a una determinata categoria, identificata da una carta dei tarocchi e associata a una delle nostre relazioni sociali, che potrà quindi rinforzarla in modo significativo al momento della creazione. Ma non è finita qui, perché unendo due Persone potremo scegliere quali specifiche abilità ereditare nel prodotto finale: si arriva quindi a operazioni alquanto arzigogolate, tipo “crea un Pixie Maggiore con l’abilità Mabufu”: questo livello di complessità come potete immaginare fa la gioia di alcuni giocatori, mentre ad altri è gradito più o meno quanto i cavoletti di Bruxelles nella zuppa inglese. E non ho neppure menzionato la possibilità di fondere più Persone contemporaneamente!

PERSONE DA SALVARE

Possiamo quindi dire che tutto va per il meglio, sotto il cielo rosso dei Ladri di Cuori? Ehhhh, purtroppo non proprio tutto. Persona 5 presenta due difetti, uno più lieve e al limite opinabile, l’altro più evidente e grave. Il primo riguarda la gestione della difficoltà: io ho scelto di affrontare il gioco in quella massima, e in generale mi sono sempre trovato bene, anche perché altrimenti i combattimenti sarebbero stati decisamente troppo facili e si sarebbe perduta l’indispensabile tensione durante l’esplorazione nei dungeon. Di punto in bianco, però, mi è capitato di incontrare nemici che con un solo attacco hanno spazzato via il mio intero gruppo. Cose che capitano, direte voi, e d’altro canto il timore di affrontare nuovi avversari è una caratteristica tipica della serie.

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Nei dungeon si può salvare solo in alcune stanze (“safe room”) che agiscono da checkpoint

Il secondo difetto, che va a braccetto ed esacerba il primo, è la gestione dei salvataggi, che non esito a definire demenziale. In pratica nei dungeon si può salvare solo in alcune stanze (“safe room”) che agiscono da checkpoint e che una volta scoperte si possono sempre raggiungere automaticamente da quel momento in poi. Fin qui andrebbe bene, senonché la posizione delle safe room è spesso scomoda e obbliga a rigiocarsi intere sezioni di dungeon, con tanto di filmati e tutto. Lo sconforto raggiunge i massimi livelli in corrispondenza dei boss, che spesso sono molto ardui da affrontare. Ebbene, pensate che in caso di sconfitta è possibile ricominciare dall’inizio della battaglia, ma SOLO all’istante, ovvero: non c’è un vero salvataggio, ma solo un “continua?” istantaneo, manco fossimo in sala giochi. Se per caso non potete (magari perché pensavate di giocare venti minuti e non, che so, due ore e mezza) sono affari vostri: ripartirete dalla safe room. Il problema dei salvataggi non si limita ai dungeon; anche nel mondo normale può capitare che, tra un filmato e un’attività sociale, risulti impossibile salvare per parecchi minuti. Questo è assolutamente ingiustificato, e la prova ne è che il recente Tokyo Mirage Sessions (lo so, non l’avete mai sentito nominare… che ci volete fare, è uscito in esclusiva per Wii U), che di Persona è cugino di primo grado, permette di salvare in qualsiasi momento. In modo assolutamente non sorprendente, l’esperienza se ne giova in modo significativo. E poi, diciamola tutta: questi sono titoli che richiedono sessanta, ottanta, anche cento ore del nostro tempo; siamo proprio certi che abbia un senso imporre simili limitazioni?

MA CHE SOSTANZE ASSUMONO IN ATLUS?

Per togliervi dalla bocca il gusto amaro di queste critiche, come chiudere la presentazione di questo titolo davvero unico nel panorama videoludico? Non posso che tornare ancora al suo stile geniale, un po’ folle e così tipicamente giapponese, raccontandovi un paio degli aspetti più assurdi che ho avuto l’occasione di incontrare. Il primo è una Persona dall’aspetto classico di diavoletto, rosso e con le cornette, un po’ tipo mascotte del Milan. Un archetipo piuttosto banale dell’immaginario collettivo, direte… e infatti è quello che ho pensato anch’io, quando l’ho visto la prima volta. Poi ho acquisito i suoi servigi e, una volta inserito nel mio catalogo, ho potuto osservarlo meglio. Ebbene, quella che avevo preso per una lunga coda ripiegata in avanti tra le sue gambe si è rivelata essere in realtà un colossale astuccio penieno (qualcuno dice “penico”), indumento principe degli spensierati aborigeni della Nuova Guinea. Se avevo qualche dubbio residuo, questo è stato fugato dalla peculiare decorazione del suddetto: cuoricini rossi su fondo rosa. Il secondo esempio è ancora più assurdo e riguarda il guardiano della torre nel primo dungeon del gioco, creato dai desideri distorti di un professore malvagio che, oltre ad angariare gli studenti, non ha problemi a molestare le ragazzine. Ebbene, costui si presenta proclamando una frase tipo “la torre del mio padrone si erge vigorosa penetrando il cielo, non potrete mai violarla”, dopodiché si trasforma in… vabbe’, diciamo che lascio a voi il piacere di scoprirlo (anche perché non vorrei che thegamesmachine.it venisse riclassificato come sito per soli adulti). Ma ora al commento, è tempo di valutare!

PS: il gioco sarà disponibile al day-one con parlato giapponese, che io, da inguaribile purista, avrei scelto senz’altro (ma del resto ho giocato ai tre The Witcher in polacco… ed è tutta un’altra cosa, credetemi). Purtroppo, mentre scrivo il DLC gratuito con l’audio originale non è ancora disponibile, per cui mi sono dovuto accontentare del doppiaggio inglese. Questo d’altro canto mi consente di segnalarvi che è davvero ottimo, così come la traduzione dei testi, curata e molto attenta alla “mediazione culturale”.

Che dire? Una delle mie serie preferite ha toccato l’apice supremo con un capitolo che migliora i predecessori sotto ogni aspetto. La trama è originale e molto più coerente, con i dungeon come palazzi in cui gli eroi si infiltrano per “cambiare il cuore” dei cattivi in un costante gioco di rimandi tra realtà fisica e universo interiore dei personaggi; il fatto, poi, che i dungeon stessi non siano più generati casualmente elimina uno degli aspetti più criticati dagli appassionati. Lo stile grafico, l’interfaccia, la musica, i filmati in animazione sono ai massimi livelli. Purtroppo non posso non segnalare che a tutto questo si accompagna una politica dei salvataggi davvero criticabile: nel 2017 non si può chiedere ai giocatori di sottostare ancora a meccanismi che non hanno più ragione d’esistere, e questo deve riflettersi anche nel giudizio finale, che resta comunque più che lusinghiero.

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Pro

  • Stile originale, modernissimo, di grande classe.
  • Un gameplay comprovato, con qualche innovazione.
  • Ottimi dungeon progettati a mano, non più procedurali.

Contro

  • Qualcuno troverà troppo arzigogolata la gestione delle varie Persone.
  • Gestione della difficoltà un po’ diseguale, causa occasionale di frustrazione.
  • Gestione dei salvataggi demenziale, causa costante di irripetibili imprecazioni.
9.2

Ottimo

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