Nell’ucronia di Atomic Heart, Mundfish ci catapulta in un passato in cui la Russia ha creato un piccolo paradiso terrestre dove uomo e macchina vivono in perfetta armonia. Se c’è una cosa che ci hanno insegnato i romanzi o i prodotti cinematografici, è che spesso queste premesse non portano a nulla di buono.
Sviluppatore / Publisher: Mundfish / Focus Entertainment Prezzo: 59,99 € Localizzazione: Completa Multiplayer: Assente PEGI: 18 Disponibile su: PC (Steam, Windows Store), PS4, PS5, Xbox One, Xbox Series X|S Data di uscita: 21 febbraio
Sappiamo bene che, ai giorni nostri, di videogiochi sotto i ponti ne sono stati sviluppati tanti, anzi tantissimi. Potrebbe capitarvi spesso, perciò, di mugugnare a bassa voce le solite frasi che profumano di “già visto”, quelle stesse frasi che sembrano uscite con prepotenza dalla Matrix dei fratelli Wachowski. Ma cosa accade quando questi pensieri vengono accostati a un videogioco che sembra letteralmente uscito dalla Rapture di Ken Levine, l’autore – tra gli altri – di BioShock?
Nella Russia di Atomic Heart si respira quasi la stessa aria, è un po’ come se un clone di Andrew Ryan, separato alla nascita, fosse cresciuto da quelle parti completamente distaccato dal vangelo maturato dall’altro, con quei versi pronti a screditare gli “uomini delle molte nazioni”, concentrandosi invece a creare la perfetta utopia di Mosca, quella dove ogni uomo ha diritto ad avere qualcosa. Molti di voi potrebbero identificare il mio pensiero come un banale volo pindarico. Tuttavia, se vi soffermate un secondo, procedendo nella lettura capirete che il mio vuole essere solo uno spunto di riflessione su una questione ben più ampia, un argomento che sovente vi sarà capitato di affrontare ma che non toccheremo oggi al fine di non screditare l’opera di Mundfish. Trattenete però parte di questo pensiero fino in fondo, vedrete che avrà senso.
ATOMIC HEART: DALLA RUSSIA CON AMORE
Cosa succede quando, in una società apparentemente perfetta, viene incastonata una componente robotica all’avanguardia? Racconti e prodotti di intrattenimento ci hanno abituato a rispondere “nulla di buono”, e anche nel caso di Atomic Heart non si va poi così lontano dal seminato. Tutto gira intorno a degli scienziati pronti a lanciare un nuovo prodotto sul mercato, il Kollectiv, fondamentalmente una rete neurale concepita per collegare umani e robot così da poter guidare questi ultimi direttamente col pensiero. Qualcosa poco prima del lancio di questa piattaforma sembra andare storto, le macchine si ribellano ai loro creatori uccidendoli a vista seminando il panico nelle ambientazioni che ci sarà possibile esplorare.
Lasciando perdere per un attimo la sezione tutorial, che strizza fortissimo l’occhio alla Columbia di Bioshock: Infinite, sebbene con estremo gusto e ottima personalizzazione degli ambienti in stile russofono, tutta la parte centrale del gioco vedrà invece il proprio sviluppo a terra, in un territorio che può sembrare open-world durante le prime fasi ma che, in fin dei conti, risulta abbastanza circoscritto. Il fine giustifica i mezzi, se non altro perché le intenzioni di Mundfish sembrano essere state quelle di concentrarsi sulla narrazione. Creare una storia convincente non è facile, soprattutto considerando il background espresso nel prologo, ed effettivamente in Atomic Heart si percepisce un lieve senso di spaesamento. Si respira ambizione ed è positivo, peccato che, verso le fasi finali della ventina di ore che ci vogliono per completare il gioco (difficoltà normale senza esplorare tutti i terreni di prova), ci si senta un po’ svuotati dalle premesse in pompa magna assimilate proprio durante i primi minuti di gioco.
La storia gira intorno a degli scienziati pronti a lanciare il Kollectiv, una rete neurale concepita per collegare umani e robot
Si arriva quindi alla fine della storia, tra le varie peripezie imposte dal gioco, senza respirare le stesse sensazioni immaginate dagli sviluppatori nonostante la presenza di due finali che, a ben vedere, sembrano comunque non collimare come si deve. Atomic Heart offre anche dei momenti in cui il protagonista affronta il proprio inconscio come all’interno di una fase allucinogena. Anche qui, il senso nella trama lo troverete palese e giustificato, ma la sua realizzazione, in termini di gioco, finisce quasi per essere insapore, incapace di coinvolgere nell’esplorazione, che delinea infine a un contorno poco influente. È chiaro, tuttavia, che come al solito non procederemo oltre per evitare inutili spoiler.
ARSENALE D’AVANGUARDIA, GUSTO URSS
Il gameplay di Atomic Heart è allineato a un “FPS con poteri”, più che una vasta immersive sim, in cui l’idea è di creare maggiore spessore attraverso l’utilizzo delle abilità di combattimento conferite dal guanto sperimentale. Anche qui, un piccolo occhiolino ai plasmidi ci sta tutto, sebbene in questo caso la personalizzazione delle skill risulti più convincente grazie al motore grafico moderno, almeno sotto il profilo visivo. Utilizzare la telecinesi si rivela nella maggior parte dei casi un piacere per gli occhi, risultato meno riuscito per quanto riguarda gli attacchi di gelo, scudo ed elettricità, che potevano essere meglio rappresentati anche a livello di funzionalità. Nella mia run ho fatto affidamento alle prime due, a mio avviso le più efficaci per le finalità di crowd-control, specie nelle fasi più concitate in cui è importante potersi creare delle aperture per avere un attimo di respiro.
Tutte le abilità possono essere potenziate grazie a un distributore robotico che vanta un’IA femminile davvero intrigante, forse la meglio realizzata per creare le parentesi comiche necessarie a spezzare leggermente il ritmo serioso della narrazione. In questa stazione si possono creare oggetti e armi, potenziarle o smontarle. La maggior parte dei materiali vengono trovati in giro per l’ambientazione, ma se si vuole cercare di potenziare le armi al massimo si rivela indispensabile l’esplorazione dei terreni di prova, bunker sparsi per l’intera mappa pronti a premiarvi con le modifiche del caso. Tra l’altro, il sistema vi indica già dove potreste trovarle nei menù dedicati, elemento che smorza leggermente il gusto della scoperta e penalizza un po’ la stessa esplorazione.
Il gioco indica dove bisogna dirigersi, una scelta di design che smorza leggermente il gusto della scoperta e penalizza un po’ l’esplorazione
Non mancano gli enigmi ambientali, durante i quali fa piacere rilevare come gli sviluppatori abbiano riadattato il classico sistema di apertura dei lucchetti con dei mini-giochi pensati per offrire un minimo di interessamento delle meningi. Con alcuni basterà il giusto timing, con altri servirà un po’ di logica, accanto a quelli speciali che necessitano di una combinazione nascosta nello scenario. Anche qui il senso si trova nella narrazione, scomodando addirittura i morti, e ancora una volta non aggiungiamo altro per evitare di rovinarvi la sorpresa. Al netto di tutto questo, non troviamo elementi capaci di differenziare Atomic Heart dalla concorrenza, riducendolo un po’ a un reskin di un qualsiasi gioco del genere senza un vero elemento distintivo capace di differenziarlo nettamente dagli altri.
L’OCCHIO DELLA MADRE PATRIA
Graficamente parlando il titolo è discretamente confezionato, frutto di un budget limitato che non vuole puntare all’eccellenza in termini di resa visiva. Gli ambienti sono stati ben realizzati nel loro complesso anche se a peccare è il level design, ripetitivo sulla lunga in termini di arredi ed elementi di contorno: ad esempio, casse, armadietti e scrivanie saranno praticamente gli stessi per ogni zona dello scenario, con una ripetitività che si avverte un po’ anche nelle macro aree, un po’ sciape in termini di diversità. Sembra quasi che in Atomic Heart abbiano costruito una grande location con dei prefabbricati tutti uguali, il che fa un po’ scemare la gioia dell’esplorazione, la quale finisce quasi per essere accessoria se non addirittura indifferente al giocatore giacché offre solo qualche potenziamento, degli elementi di creazione e nulla più.
I mutanti sono splendidi, ma anche i robot non sfigurano affatto in quella che appare davvero come un’utopia russofona di fine anni ’50
In Breve: Ricordate di quel pensiero che vi avevo consigliato di mantenere fino in fondo? Ecco. Atomic Heart soffre di quel sapore di “già visto” che finisce un po’ per snaturarne la fattura, un elemento importante che potrebbe intaccare l’esperienza di chiunque, proprio per l’incapacità di creare empatia con personaggi vissuti, alla fine, quasi come comparse. Un insieme di cliché che, però, non penalizza la riuscita dell’opera nella sua totalità. Lo spettacolo messo in scena da Mundfish ha tutte le carte in regola per fissare buone basi di partenza, che in sede post-lancio potrebbero trovare maggior senso. Staremo a vedere: le potenzialità dell’ambientazione sono più di quelle effettivamente sfruttate.
Piattaforma di Prova: PC
Configurazione di prova: I7-11800H, 16GB RAM, GEFORCE RTX 3060, SSD
Com’è, Come Gira: Atomic Heart sulla nostra configurazione non ha dato il minimo cenno di rallentamento, risultando incredibilmente fluido con tutte le impostazioni a livello atomico.