Per gli americani esistono tre sportivi in grado di raccontare davvero il 900 attraverso le proprie gesta: Micheal Jordan, Muhammad Ali e George Herman Ruth, detto anche “Babe” Ruth, The Bambino. I primi due sono patrimonio mondiale, mentre il terzo è qualcosa di strettamente legato alla cultura statunitense e a quello sport talmente radicato nel mondo a stelle e strisce che le leghe professionistiche non si sono fermate né durante le guerre, né durante la grande depressione: il baseball. Espressione sportiva massima della democrazia americana, sul diamante possono esserci tutti, senza distinzione di razza, età e senza necessità di una forma fisica invidiabile. Certo, non è sempre stato così, visto che la Negro American League è durata fino al 1958, ma, in effetti, questo mi aiuta a dire che non c’è uno sport, come il baseball, in grado di raccontare meglio la vita e la società negli States. Anche i suoi tempi dilatati, fatti a uso e consumo dello spettacolo, rappresentano la cifra di una cultura che ha fatto dello storytelling e della grandezza a ogni costo e livello una sorta di mantra.
Per molti di noi il baseball è soltanto uno sport noioso, a tratti inelegante, grezzo e monotono, e sono tutti commenti che possono starci. Per apprezzarlo bisogna essere appassionati di storia e di studi sociali, prima che di sport, e bisogna far propria l’adorabile contraddizione con cui gli americani si rapportano al loro gioco preferito: da un lato un rigore statistico impressionante, che muove una macchina incredibile dal punto di vista dello studio e della disciplina, dall’altro una fede incredibile nei simboli, nelle squadre, nelle storie, che spesso stravolgono i numeri e le aspettative. Ma d’altronde questa dicotomia è anche il riflesso stesso di una nazione. E dunque, come diceva Jacques Martin Barzun, storico francese e insegnante alla Columbia University per oltre trent’anni, “Chiunque voglia davvero comprendere il cuore e la mente dell’America, farebbe bene prima a imparare il baseball“. E questo vale anche per MLB The Show.
LA TRADIZIONE
È dal lontano 1998 che Sony racconta il baseball americano con un franchise che da MLB Series è diventato, a partire dal 2006, MLB The Show, e tiene fede al proprio titolo attraverso un gameplay profondo e una quantità di materiale impressionante, tanto da far concorrenza a NBA 2K, quella che a mio avviso è la più grande serie sportiva di tutti i tempi. La crescita della simulazione di Sony è stata costante e, almeno fino all’anno scorso, è andata avanti secondo la tradizione, perché nel baseball nulla si fa dalla sera alla mattina, e la sostanza conta più dell’apparenza. Con lo sbarco definitivo sulla current gen, invece, lo studio SIE San Diego ha deciso di fare l’ultimo passo verso la definitiva consacrazione del brand, con l’arrivo della Diamond Dinasty, una sorta di modalità in stile Ultimate Team, ma profondamente radicata nello spirito collezionistico e storico della MLB, con tanto di collaborazione con Topps, azienda che crea le celeberrime trading card della lega sin dal 1951. Insomma, come se in FUT ci fossero le figurine Panini.
È dal lontano 1998 che Sony racconta il baseball americano
PEPI PEPI PEPI PEPI PEPITONE
Citando il buon Faso, membro dell’iconica band meneghina Elio e le Storie Tese, nonché una delle storiche voci del baseball italiano, non ci si può che leccare i baffi davanti alla modalità Road to the Show, che allinea la modalità carriera del franchise Sony a quanto fatto da Visual Concept per il suo NBA. La narrazione arriva in maniera prorompente anche sul diamante, ma lo fa nella maniera più solenne e tradizionale possibile, in linea con lo sport che vuole raccontare. Nessuna introspezione vera come Il Viaggio di Alex Hunter in FIFA 17, e neanche il delirio dello scheduling e l’affermazione extra cestistica di MyPlayer, ma un racconto fatto da una voce fuori campo, che illustra con didascalica placidità e tono profondo tutti i passaggi fondamentali della carriera di un giocatore di baseball.
I momenti topici sono corredati da cut scene, ma i dialoghi sono affidati al testo e qualsiasi aspetto nevralgico viene affrontato tramite menu e statistiche. Insomma, a primo acchito sembrerebbe una soluzione anticlimatica, ma vi assicuro che funziona in maniera sorprendente. Il focus, d’altronde, è sempre ciò che avviene sul diamante, e la narrazione rappresenta un collante funzionale in grado di dare dei suggerimenti importanti per lo sviluppo del personaggio, nonché a tenere alta la concentrazione lungo le oltre centocinquanta partite che accompagnano la stagione. Chiaro che non bisogna giocarle tutte e il motore simulativo svolge egregiamente il proprio dovere, regalandoci prestazioni decorose anche quando non scendiamo direttamente in campo, e in ogni caso utilizzando un solo giocatore i tempi delle partite si riducono drasticamente.
MLB The Show 17 permette di godere della magia del baseball anche a chi non ha gli oltre quaranta minuti necessari a giocare un match completo
Insomma, ancora più dell’edizione scorsa, MLB The Show 17 permette di godere della magia del baseball anche a chi non ha gli oltre quaranta minuti necessari a giocare un match completo (che già rispetto alla realtà è un grandissimo sconto). Nel processo di democratizzazione del baseball forse si poteva fare di più per rendere maggiormente vario e ancora più appetibile il Retro Mode, che trasforma MLB The Show 17 in un titolo d’altri tempi e, soprattutto, giocabile con un solo tasto. Purtroppo la modalità è solo abbozzata e rappresenta un piacevole divertimento che, forse, meritava più cura, ma è anche vero che in termini di contenuti non ci si può troppo lamentare.
DIDATTICA DEL BASEBALL
L’altro aspetto che completa la trasformazione di MLB The Show in una serie potenzialmente per tutti è la sua disponibilità all’essere addolcita per chi non mangia in casa base quotidianamente. Ogni aspetto, infatti, è ampiamente personalizzabile e in ogni frangente, sia in campo che nell’ufficio del manager, è possibile scegliere cosa controllare in prima persona e cosa demandare alla sovrintendenza della CPU. Questo vuol dire scoprire lentamente e gradualmente tutte le complicazioni (tante) del mondo del baseball e riuscire a divertirsi senza mai essere asfissiati dalla mole di contenuti.
MLB The Show 17 è un gioco assolutamente piacevole da vedere e di qualità più che buona
Meno impressionanti, invece, i passi avanti dal punto di vista tecnico. Sia chiaro, MLB The Show 17 è un gioco assolutamente piacevole da vedere e di qualità più che buona, ma i modelli dei giocatori restano ancora un filo plasticosi e a volte le animazioni non sono esattamente congruenti. Ribadisco che si tratta di un problema minore, ma è palese che Sony San Diego abbia lavorato sulla quantità di animazioni e situazioni possibili invece di puntare al fotorealismo assoluto. Il colpo d’occhio è sicuramente di livello e c’è da fare anche i complimenti agli sviluppatori per l’ottimizzazione su PS4 Pro, che presenta diverse impostazioni grafiche in grado di fornire diversi bilanciamenti tra qualità grafica e fluidità. Complessivamente, comunque, siamo davanti a una produzione che sembra a tutti gli effetti di qualità televisiva. La varietà di momenti che si possono vivere sul diamante è davvero encomiabile e MLB The Show 17 è effettivamente il punto di arrivo di un percorso ventennale. Tradizionale, rifinito e profondo, il baseball virtuale è davvero uno spettacolo.
MLB The Show 17 non è un impressionante passo in avanti rispetto all’edizione dell’anno scorso, tuttavia Sony San Diego è riuscita a completare l’opera di ristrutturazione del franchise, portando ogni elemento alla sua massima espressione. Molto bello da vedere, ma ancora di più da giocare, siamo davanti a un titolo che ha tantissimo da dire agli appassionati di baseball, ma che può piacere molto anche a chiunque ami dilettarsi con i titoli sportivi. Il nuovo layer narrativo aggiunto alla modalità carriera ha l’enorme pregio di raccontare il baseball in maniera peculiare, quasi documentaristica, e per certi versi l’intera produzione ha un certo che di didattico, nella misura in cui rappresenta il miglior ambasciatore multimediale di uno sport fin troppo sottovalutato e che ha una valenza culturale come pochi altri.