Dying Light: The Beast – Recensione

PC PS5 Xbox Series X

Quando l’oscurità avvolge Castor Woods e gli occhi della foresta ti osservano famelici, la brutale verità emerge: l’orrore non è più confinato alle ombre della notte in Dying Light: The Beast, ma scorre nel sangue di chi dovrebbe combatterlo.

Sviluppatore / Publisher: Techland / Techland Prezzo: € 59.99 Localizzazione: Testi Multiplayer: Co-op online PEGI: 18 Disponibile su: PC (Steam, Epic Games Store), PlayStation 5, Xbox Series X|S Data di Lancio: Già disponibile

Mi riferisco al redivivo Kyle Crane, la star del primo Dying Light rispolverata in occasione della nuova iterazione, non ad Aiden, il pellegrino del secondo capitolo. Come s’era intuito dai trailer, il ritorno alle origini non si ferma all’attore principale, le intenzioni di Techland sono inequivocabili: riallacciare il legame con l’episodio di dieci anni fa da cui tutto ebbe inizio.

Se Dying Light 2 Stay Human aveva deviato rispetto alla strada tracciata dal predecessore, Dying Light: The Beast riporta il franchise sui binari canonici, quelli tanto amati – e tanto rimpianti in alcuni casi – dai nostalgici di Harran. Dopo averlo provato con gusto, direi che chi ha amato il primo capitolo ma non il secondo finalmente potrà trovare requie: è bello tornare ad avere una paura f*ttuta della notte.

LA METAMORFOSI DEL SOPRAVVISSUTO

L’introduzione è potente, si capisce che ci tiene a sgombrare subito il campo da ogni possibile dubbio sulla tonalità della nuova esperienza. La fuga dal laboratorio degli orrori, il luogo dove l’équipe del Barone ha sottoposto Crane a ogni sorta di esperimento per tredici lunghi anni, ti inietta dritto nelle vene adrenalina e tensione annata 2015, le stesse di una volta; le sensazioni si radicano così in profondità da non venire minimamente scalfite dal senso di disorientamento che, inevitabilmente, ti colpisce appena metti piede fuori dalla struttura, pronto a cominciare una caccia all’uomo assai personale, una storia di vendetta e sangue. Il ritorno di Crane non è solo un espediente narrativo, è il motore che ridefinisce l’intera struttura di gioco. Se il primo indimenticabile Dying Light aveva trasformato l’idea di survival-horror grazie al parkour e al ciclo giorno/notte, e il seguito aveva innestato su una verticalità urbana senza precedenti scelte morali, modifiche cittadine e fazioni in conflitto, The Beast rompe gli schemi trascinando l’azione in un contesto rurale e introducendo la trasformazione interiore come cardine del gameplay.

Dying Light: The Beast

Evviva la fuga!

Castor Woods è una vasta area liberamente esplorabile divisa in zone di livello differente, composta da boschi, villaggi, cave e distese fangose che costringono a un approccio diverso dal solito. Non c’è la fitta verticalità di Villedor e nemmeno quella meno vertiginosa di Harran a cui aggrapparsi per sopravvivere, il nuovo world building introduce spazi aperti in cui la fuga e l’inseguimento assumono una nuova forma. I tetti delle fattorie diventano rifugi improvvisati, i tronchi caduti fungono da passaggi sopraelevati, i veicoli — utilizzabili a patto di rifornirli di carburante, reintrodotti ma non personalizzabili come nel DLC The Following — si rivelano presto strumenti fondamentali non solo per coprire le lunghe distanze, ma anche per abbattere orde di infetti.

La vera novità non ha quattro ruote ed è molto più letale di un pick-up: è la Bestia che si agita dentro Crane

La vera novità non ha quattro ruote, ma quando parte è molto più devastante di un pick-up: è la Bestia che si agita dentro Crane. Colpendo e subendo colpi, schivando e parando con buon tempismo, una barra della “furia” si carica fino a trasformare il protagonista in un abominio capace di abbattere muri, smembrare zombi a mani nude o travolgere interi gruppi con scatti impossibili per un essere umano. È una meccanica che spariglia le carte in tavola, alternando momenti di spaventosa vulnerabilità a improvvise esplosioni di potere liberatorio e violenza senza freni. Non è solo un buff temporaneo, è proprio un modo nuovo di vivere il conflitto, più istintivo, più brutale.

I TALENT-BONSAI DI DYING LIGHT: THE BEAST

La metamorfosi non si ferma all’estetica. La progressione è divisa in quattro rami distinti: potenza, agilità, furtività e Bestia. Quest’ultimo è un talent tree – anzi un talent bonsai, viste le dimensioni contenute – che consente di modulare il proprio mostro interiore investendo gli skill points accumulati uccidendo le Chimere (otto mini boss da cui estrarre GSB, una risorsa centrale nella storia). Si può puntare sulla forza bruta, amplificando i pugni fino a ridurre in poltiglia anche i nemici più coriacei, oppure orientarsi verso l’agilità predatoria, con scatti fulminei e balzi che ricordano le creature notturne. Alcuni talenti permettono persino di assorbire energia dagli avversari per prolungare lo stato di furia, creando un circolo vizioso che invita a rischiare l’osso del collo deforme pur di restare nella forma potenziata.

Una delle prime Chimere da abbattere: Difetto.

Tra Chimere abbattute in boss fight eccitanti, punti acquisiti a ogni nuovo livello e un set di abilità classico immediatamente disponibile, la rinnovata progressione aggiunge un tocco di personalizzazione extra a un sistema già collaudato, nonostante il limitato numero di abilità/talent points disponibili (The Beast in origine doveva essere un DLC di DL2, qua e là si nota: l’esperienza è più contenuta rispetto ai due capitoli precedenti) e l’assenza di exp raccolta semplicemente compiendo azioni. Il parkour rimane un marchio di fabbrica, agile e intuitivo come solo quello made in Polonia sa essere, nello specifico DL2. La sopravvivenza conserva il solito gusto e un buon equilibrio nella gestione delle risorse tra crafting di armi, riparazioni/potenziamenti dell’equipaggiamento e vitale ricerca di materiali.

La Bestia aggiunge una dimensione inedita al gameplay, pur non rivoluzionandolo visceralmente come ci si potrebbe aspettare

La Bestia invece aggiunge una dimensione inedita al gameplay, pur non rivoluzionandolo visceralmente come ci si potrebbe aspettare: offre la possibilità di costruire un Crane che non è più solo un uomo armato (melee ma anche armi da fuoco, finalmente riapparse), ma una creatura ibrida in costante equilibrio tra controllo e abbandono alla furia. A quanto pare, domare la Bestia non è facile per Crane ma neppure per Techland; alcune abilità appaiono eccessivamente potenti, rischiando di far scemare la tensione se usate di continuo. Il gioco cerca di controbilanciarne l’impatto limitando la frequenza con cui ci si può trasformare, ma l’impressione è che il senso di pericolo allenti la presa nei momenti in cui il mostro prende il sopravvento. Al tempo stesso, però, è proprio questa alternanza di ruolo, da preda a predatore e viceversa, a rendere unico il ritmo di The Beast sicché il compromesso ha senso d’esistere.

UN’EREDITÀ PESANTE, UN FUTURO PROMETTENTE

Guardando al passato della serie, il ritorno di Kyle Crane si pone come sintesi e superamento. Del primo capitolo riporta in vita l’angoscia delle notti in cui ogni respiro può essere l’ultimo (attenzione là fuori: quando calano le tenebre le cose si fanno estremamente difficili, i Volatili sono particolarmente letali), ma la usa sadicamente per saturare degli spazi aperti in cui il senso di smarrimento non nasce dai vicoli stretti, bensì dall’immensità e dalla mancanza di punti di riferimento. Del secondo riprende la maggiore fluidità del parkour e il combat system più sfaccettato, ma rinuncia a buona parte della dimensione politica delle fazioni e ai bivi narrativi, scegliendo una trama più lineare che punta sulla lotta interiore del protagonista. La storia, va detto, non brilla per originalità, alcuni dialoghi sembrano fare a gara per dimostrarlo. Funziona come cornice insomma, ma non sorprende ed è facile intuire dove vuole andare a parare.

L’oscurità in tutta la sua abominevole bellezza.

È piuttosto l’atmosfera a prendersi meritatamente il centro del palcoscenico e gli applausi: il fruscio delle foglie quando qualcosa si muove nel buio, i villaggi disabitati che sembrano custodi di un passato doloroso, le Zone Oscure in cui avventurarsi sperando di fare ritorno, i roghi improvvisati che illuminano la notte, la paura di non sopravvivere abbastanza a lungo da veder spuntare la nuova alba, circondato da gruppi di Volatili pronti a rincorrerti nel buio, tutto al di là delle luci UV instilla autentico terrore… finché non si palesa la Bestia. Sul fronte audio-visivo, il gioco regala una natura viva e inquietante, con giochi di luce che rendono ogni tramonto e ogni notte un piccolo spettacolo, una colonna sonora sempre sul pezzo e degli effetti sonori inconfondibili. Gli infetti inoltre sono più dettagliati che mai, con modelli di danno evoluti che mostrano arti strappati, ossa spezzate, crani mozzati e corpi ridotti a brandelli con un livello di precisione talmente elevato che non mi stupirei se risultasse disturbante per i più sensibili. Per le performance invece vi rimando al box apposito.

BENTORNATO CRANE!

Dying Light: The Beast convince perché osa senza mai tradire la propria identità e rispettandola come si conviene, che poi era tutto ciò di cui i fan avevano bisogno dopo i cambiamenti ben più profondi apportati da Aiden. L’introduzione della Bestia non è un semplice orpello perché ridefinisce il modo di approcciarsi agli orrori che vagano per l’ampia mappa di gioco, anche se le dinamiche che la caratterizzano si possono calibrare meglio e, in fin dei conti, non si può parlare di innovazione.

Dying Light: The Beast convince perché osa senza mai tradire la propria identità, che poi era tutto ciò di cui i fan avevano bisogno

Durante la caccia al Barone un po’ ho sentito la mancanza della complessità architettonica di Harran e Villedor, lo ammetto; aggirarsi per quei vicoli opprimenti infestati dalla morte regalava un brivido speciale, tuttavia devo riconoscere che il nuovo contesto dona una freschezza inedita a una delle più soddisfacenti e terrificanti saghe horror-survival proposte dal panorama videoludico, la quale si arricchisce di un nuovo capitolo che piacerà soprattutto a chi ha adorato il primo e le sue interminabili notti da incubo (come dimenticarsi la missione di notte sul ponte?).

Notevole la cura per i dettagli: le armi usurate si deformano, ad esempio.

Rimangono alcuni difetti storici — delle missioni/attività secondarie talvolta ripetitive, qualche bug grafico, una componente narrativa poco ispirata — ma complessivamente Techland ha svolto un buon lavoro sotto numerosi punti di vista, il feeling è quello di una volta ergo è difficile chiedere di più. La sensazione è che sia questo il punto d’incontro perfetto tra primo e secondo capitolo, perciò è da qui che si dovrà partire per l’eventuale realizzazione dei prossimi capitoli. La scelta di rinsaldare il legame col passato più lontano è indubbiamente vincente, al di là di un’esperienza più contenuta in diversi aspetti: Dying Light: The Beast è un action game in prima persona cupo, brutale e piacevolmente coerente nei suoi bestiali sforzi per spingere la serie verso territori conosciuti e, al tempo stesso, inesplorati.

In Breve: Torna Kyle Crane, tornano le notti da incubo e tornano le sensazioni che Dying Light più di Dying Light 2 Stay Human ci aveva regalato, sebbene trasposte in uno scenario dal design assai diverso. The Beast non sarà perfetto ed è un’esperienza più contenuta dei suoi predecessori, ma sicuramente farà la gioia dei fan del primo capitolo perché lo ricorda là dove conta maggiormente. La caccia al Barone non è adatta a chi desidera dei racconti elaborati, del resto è solo un pretesto per tornare là fuori e danzare da un tetto all’altro con agilità made in Techland, tra degli infetti più “belli” che mai, scrutando nervosamente l’orologio per evitare di ritrovarsi alle calcagna orde di orrori della notte… finché la Bestia fa la sua mostruosa comparsa. Con questo intenso capitolo, pace tra chi era rimasto deluso dalla piega presa dal franchise e Techland è ufficialmente fatta.

Piattaforma di Prova: PC
Configurazione di Prova: Ryzen 7 7800X3D, Radeon 7800XT Nitro+ 16 GB, 32 GB RAM DDR5, SSD NVMe
Com’è, Come Gira: Su PC le prestazioni sono solide, con giusto qualche sporadico calo di fluidità nelle sequenze più affollate. Nel complesso l’ottimizzazione è valida: in 1440p e tutte le impostazioni al massimo, con Frame Gen attivo ho toccato i 110/120 fps mentre senza 80/90 fps, valori che non mi hanno mai fatto venire voglia di ricorrere al FSR. In 4K invece ho toccato i 30 fps liscio, i 50 fps con Frame Gen on e i 60+ fps con Frame Gen on + FSR su bilanciato. Graficamente il colpo d’occhio è davvero apprezzabile, di giorno o di notte Castor Woods risulta sempre inquietante al punto giusto.

Condividi con gli amici










Inviare

Pro

  • Ambientazione rurale suggestiva e inedita / Parkour e combattimenti sempre adrenalinici / Si avvertono vibes da primo Dying Light!

Contro

  • Trama prevedibile e meno incisiva del contesto / Permangono i difetti storici della serie / Equilibrio della Bestia non sempre ben bilanciato
8.4

Più che buono

Password dimenticata