È il 1989 e Martin Edmondson ha appena pubblicato sotto etichetta Psyclapse (la divisione budget di Psygnosis, responsabile di titoli a basso profilo quali Baal e Captain Fizz meets the Blaster-trons) il discreto Ballistix, praticamente una versione digitale e fantasy del gioco da tavolo Crossfire. Anni prima aveva fondato Reflections assieme a Nicholas Chamberlain ed era giunto il momento di compiere il dovuto salto di qualità, investendo tempo nella lettura del celebre Amiga Hardware Reference Manual (arrivato alla terza edizione e pubblicato da Addison-Wesley, nel caso interessasse). Tornando a bomba, lo studio di Martin si focalizza sulle tecniche di scorrimento parallattico e sul coprocessore Copper, tanto che, in una vecchia intervista, definisce la potenza di Amiga tanto inarrivabile da rendere gli altri computer dell’epoca simili a macchine a vapore, asserendo che routine di scorrimento multiplo a 60 fotogrammi al secondo assieme alla capacità di suonare contemporaneamente audio digitalizzato avrebbe richiesto una stanza piena di Atari ST. Esagerazione o meno, Shadow of the Beast fu il titolo scaturito da quella voglia di spingere Amiga oltre i suoi limiti, un progetto mirato a valorizzane le doti da macchina da gioco per produrre un’esperienza che rivaleggiasse senza problemi con i più massicci coin-op dell’epoca.
Se non eravate dotati di Amiga durante quel Natale del 1989 non potete capire l’impatto di Shadow of the Beast, non ci sono emulatori o rom che tengano. Un esercizio di tecnica e stile talmente mozzafiato che Jonathan Ellis e Ian Hetherington – entrambi boss di Psygnosis – non badarono a spese per promuoverlo, impacchettando i due dischetti in una grossa confezione in cartone con t-shirt in omaggio, entrambe impreziosite dall’arte del celebre illustratore Roger Dean, loro amico e già artefice delle copertine di alcuni titoli della software house col gufo come Obliterator e Brataccas. Avanti veloce fino ai nostri giorni: questo Shadow of the Beast sviluppato da Heavy Spectrum Entertainment Labs com’è?
TALE AS OLD AS TIME…
Nel magico mondo di Karamoon, Aarbron viene rapito da piccolo e mutato in un ferale servitore dal volto caprino per il piacere del malvagio Maletoth. Imprigionato nel ruolo di sanguinario portatore di morte, Aarbron viene però a conoscenza del suo passato in seguito al risveglio di sopiti ricordi, e decide quindi di spezzare le catene e incamminarsi su un sentiero lastricato dai cadaveri di chiunque sia abbastanza stolto da opporsi alla sua sete di vendetta. Stessa storia del 1989, perché lo Shadow of the Beast dei nostri giorni non vuole essere un nuovo capitolo dell’epopea di Aarbron (conclusa tra l’altro in un terzo episodio scritto sempre su Amiga e mai convertito per nessun altro formato) bensì un reboot, un omaggio a un’icona della storia del nostro hobby.
Come ci si approccia dunque a una leggenda? Principalmente, con rispetto. Matt Birch e il suo gruppo amano il gioco originale e nel codice di questa nuova/vecchia avventura si trovano continui richiami ai tempi che furono, tra cui l’emulazione del gioco originale (un titolo per Amiga emulato su PlayStation? Che diavoleria è mai questa?!) con tanto di opzionali vite infinite e consigli, assieme all’iconica colonna sonora di David Whittaker, un capolavoro dalle sonorità new age che potrete addirittura godervi giocando al reboot, sostituendola a quella originale. A parte questo, ci sono un’infinità di omaggi tra fondali, colori e personaggi, arrivando a richiamare i bestioni meccanici disegnati da Dean sulle copertine del primo e secondo capitolo, chiamanti molto appropriatamente Titani Deaniani e qui protagonisti di un livello al cardiopalma dove si combatte sul loro metallico carapace.
Il nuovo sistema di combattimento è brutale e selvaggio, proprio come Aarbron
Aarbron vanta fortunatamente qualche asso nella manica da attivare al prezzo di sangue, una riserva che viene rimpolpata squartando ogni poveraccio tanto stupido da sbarrare la strada a un caprone antropomorfo assetato di vendetta. Sacrificando una delle tre “tacche” di sangue il bestiale protagonista può ad esempio sbranare il malcapitato di turno per recuperare vitalità, oppure impalarlo sugli artigli incrementando il moltiplicatore del punteggio, perché il nuovo Shadow of the Beast nasconde sotto la scorza ruvida e sanguinaria un’anima dedita allo score attack, con tanto di valutazione per ogni combattimento e capitolo da confrontare con i risultati di amici e sconosciuti in apposite leaderboard. È facile abbandonarsi alla delusione dopo le prime partite, con il gioco che snocciola valutazioni pessime già dal secondo livello dopo uno stage introduttivo che funge più che altro da tutorial; tuttavia, con l’esperienza il combattimento scorre fluido e mortale mentre arrivano le prime medaglie d’oro. Se proprio ci si sente incapaci di resistere all’assedio nemico è possibile investire l’esperienza guadagnata tra un livello e l’altro, magari tralasciando quella bellissima scansione in alta risoluzione della copertina originale da ammirare sul 60 pollici con la bava da maniaco a favore di potenziamenti vari che consentono ad Aarbron di resistere a più colpi e picchiare più duro, magari ottimizzando il consumo di sangue.
… SONG AS OLD AS RHYME
Non si vive di soli combattimenti tra le lande di Karamoon. Ogni livello è sensibilmente differente dall’altro, con quelli all’aperto che spiccano per direzione artistica, con colori, chiaroscuri e strati di parallasse che ricordano le intuizioni artistiche di Edmondson e Dean, mentre una colonna sonora che non disdegna l’uso di strumenti a fiato riporta alla mente le sonorità di Whittaker, pur mantenendo un’impronta propria. Al contrario dei tempi andati, gli stage sono più vari, ricchi di piattaforme e muri da scalare grazie agli artigli di Aarbron alla ricerca di bonus nascosti come scontri extra (utili per massimizzare il punteggio in vista della valutazione finale, un po’ come accade in Bayonetta), capitoli narrati che spiegano gli eventi oppure i succosi talismani, da acquistare e indossare per ottenere particolari vantaggi, capaci tra l’altro di strizzare un occhio o due alla ludoteca Psygnosis, che dio l’abbia in gloria. Dopotutto, chi non vorrebbe mettere le mani sullo scudo di Leander? Forse i meno onesti tra noi che rimasero scottati da uno dei più bastardi sistemi anti pirateria di tutti i tempi, nel 1991?
Il nuovo Shadow of the Beast è un titolo che non ha paura di essere rigiocato più e più volte
Shadow of the Beast è un tributo sincero e convincente a un classico senza tempo. Per quanto non sia possibile replicare il successo del capitolo originale, l’omaggio cattura la visione originale di Martin Edmondson in modo assolutamente autentico. C’è qualche stonatura qua e là come nel caso dei deludenti boss, generosi nelle dimensioni ma non altrettanto interessanti nei pattern, un po’ come nel gioco originale d’altronde. L’esplorazione dei livelli avrebbe beneficiato di uno strumento simile al cannone laser sin dalle prime battute a favore di mappe più intricate e interessanti; tuttavia, nel complesso la sensazione di trovarsi davanti a un nuovo Shadow of the Beast c’è, e forse è questo ciò che conta maggiormente per quel fanboy di Matt Birch. O di noi vecchietti, in generale.