Ghost of Yotei – Recensione

PS5

La neve cade leggera sul monte Yōtei, ma il sangue non tarda a macchiarla. Atsu cammina tra ombre e fuoco, sola contro uomini mascherati e un crimine impossibile da perdonare. Foreste selvagge, villaggi addormentati e pianure infinite diventano il palcoscenico di una vendetta inesorabile. Ogni lama, ogni passo, ogni scelta pesa sul destino di chi osa opporsi. Ghost of Yōtei non è solo la sua storia, bensì un racconto di coraggio e furia che non lascia scampo.

Sviluppatore / Publisher: Sucker Punch / SONY Prezzo: 79,99 Localizzazione: Testi Multiplayer: Assente PEGI: 18 Disponibile su: PS5, PS5 Pro

Corre l’anno 1603, e il Giappone ha dimenticato il fantasma di Tsushima da secoli. È l’inizio dell’era Edo, ma sull’isola di Hokkaidō il tumulto del continente sembra non scalfire lo splendido paesaggio rurale, selvaggio e indomito, che si adagia all’ombra del monte Yōtei. O Makkari Nupuri, come lo chiamano gli Ainu, la comunità che abita quei luoghi in pace, fedele al baratto e alle proprie tradizioni, senza dare peso agli echi lontani della guerra. Eppure si sbagliano: quell’angolo di paradiso è destinato a essere inghiottito dall’ambizione di Lord Saitō, un signore decaduto deciso a risorgere come lo Shōgun del Nord.

Per raggiungere il suo scopo, intende piegare la terra con la forza militare e con l’élite di fuorilegge che lo segue: uomini spietati, celati dietro maschere grottesche, che si fanno chiamare i Sei di Yōtei. Il caos esplode quando il clan Matsumae risponde al fuoco delle polveri con l’acciaio, difendendo la regione allora conosciuta come Ezo in nome di Toyotomi Hideyoshi. Mentre il paradiso si lacera sotto l’incalzare della guerra, i Sei di Yōtei si muovono all’unisono per compiere una sadica esecuzione, in una notte illuminata da un albero in fiamme: trucidano senza apparente motivo la famiglia di un fabbro, lasciandosi però sfuggire una bambina chiamata Atsu, ferita e in preda alle lacrime. Grave, gravissimo errore.

LO SPIRITO DELLA VENDETTA

Atsu è una donna tosta, qualora l’assenza di un protagonista maschile vi avesse dissuaso dall’interessarvi a Ghost of Yōtei. Scampata alla morte, trova rifugio nelle strade di Osaka e rinasce imparando a combattere, partecipando a battaglie decisive come Sekigahara, non sempre dalla parte dei vincitori. Quando torna a Ezo, ferocia e determinazione diventano le sue armi. Ossessionata dalla vendetta, porta sempre con sé una fascia recante i nomi dei Sei di Yōtei, da cancellare uno a uno col loro sangue. Il primo, la Serpe, impara a proprie spese quanto sia ferrea questa risolutezza: già nel tutorial, Atsu non si fa scrupoli a sfruttare ogni vantaggio, sterminando gli uomini del criminale prima di incendiare la capanna in cui lui si ubriaca, approfittando di ogni debolezza pur di avanzare nella sua missione e strappargli la vita.

Ghost of Yōtei percorre la stessa strada del suo predecessore: un titolo superiore alla somma delle sue parti.

Ghost of Yōtei è più grande del suo predecessore, non tanto per l’estensione della mappa quanto per la sua densità, enormemente più ricca di attività. Ci sono taglie da riscuotere, territori da liberare dal controllo di Lord Saitō per ottenere punti abilità, sorgenti termali e postazioni di bambù da affrontare con la spada, utili rispettivamente per aumentare salute e spirito, una sorta di “mana” del gioco con cui rigenerare i punti ferita e utilizzare tecniche speciali. La varietà si riflette anche nel sistema di combattimento, che affina quello di Ghost of Tsushima. Al posto delle forme della katana del clan Sakai, Atsu può padroneggiare nuove armi sbloccabili tramite maestri sparsi nel mondo, ciascuno con quest dedicate. Mi è piaciuto molto come questi apprendimenti siano ben contestualizzati: ad esempio, un ex cacciatore di taglie riluttante ad allenarci con la doppia katana ci sottoporrà a esercizi che simulano la crescente resistenza del braccio sinistro, obbligandoci a falciare bambù con input inizialmente quasi impossibili, che col tempo diventano più accessibili, rispecchiando la crescita di Atsu.

I combattimenti sulla neve sono davvero spettacolari.

Una tale diversità di armi premia l’adattabilità: il flusso incessante delle doppie lame travolge i lancieri, mentre il peso della kusarigama fa a pezzi gli uomini con scudo. Allo stesso modo, l’allungo dello yari non lascia scampo ai nemici armati di pugnali, e l’imponente ōdachi riduce in polvere gli avversari più massicci. Sebbene la regola aurea dica che solo una katana può prevalere contro un’altra, padroneggiare le armi alternative è sempre divertente, grazie anche ai loro bonus unici, come l’esecuzione furtiva a distanza garantita dalla kusarigama. Il combattimento richiede tempismo: si vince schivando all’ultimo gli attacchi, contrattaccando al momento giusto o fiaccando la resistenza nemica fino a sferrare colpi letali. Bisogna però leggere con attenzione i segnali visivi: i colpi contrassegnati da un bagliore celeste richiedono una parata perfetta, quelli rossi vanno evitati a ogni costo, mentre i gialli disarmano Atsu, costringendola a ripiegare rapidamente su un’altra arma mentre recupera la principale.

il flusso incessante delle doppie lame travolge i lancieri, il peso della kusarigama fa a pezzi gli uomini con scudo, l’allungo dello yari non lascia scampo ai nemici armati di pugnali, l’imponente ōdachi riduce in polvere gli avversari più massicci

Il ritmo della lotta è reso ancora più fluido dalla natura scaltra della protagonista, che non si fa problemi a raccogliere al volo le armi abbandonate dai nemici caduti per scagliarle contro avversari in arrivo e impalarli sul posto. Anche stavolta, come già consigliato nella recensione di Ghost of Tsushima, vi invito a iniziare subito scegliendo il livello Difficile. Qui i nemici sono più aggressivi e il tempismo richiesto per le parate perfette è molto più serrato: questo rende davvero significativo il lavoro di ricerca di potenziamenti e risorse per migliorare l’equipaggiamento, offrendo una sfida tutt’altro che banale. Per i più temerari è disponibile persino un livello superiore in cui, per lo meno all’inizio, ogni colpo subito equivale a morte certa. Una modalità estrema, consigliata magari solo per una run successiva, mentre i più esigenti possono optare per uno stile personalizzato, intervenendo su numerosi indicatori per adattare la sfida ai propri gusti.

L’INCANTEVOLE SEKAIKAN DI GHOST OF YŌTEI

Con il progredire della sua maestria marziale, Atsu diventa una vera forza della natura, guadagnandosi il nome di Onryō, lo spirito vendicatore destinato a divenire l’incubo dei Sei di Yōtei. Gli abitanti di Ezo iniziano a offrirle doni in segno di riconoscenza, mentre l’ira di Saitō cresce, spingendolo a porre sulla sua testa taglie sempre più allettanti. Così ronin e cacciatori di taglie popolano le sue strade, rendendo il viaggio ancora più pericoloso. La storia di Atsu è più personale e coinvolgente rispetto a quella di Jin, ed è raccontata attraverso ricordi e intermezzi che gettano luce su quella notte fatidica e sulle alleanze strette con vecchi e nuovi compagni. Per questo conviene sempre fermarsi a parlare quando se ne ha l’occasione: ogni dialogo può rivelare un indizio utile per scoprire una fonte termale nascosta o immergere Atsu nei racconti dei miti e delle leggende che circondano il monte Yōtei, da esplorare con curiosità alla ricerca di verità che spesso conducono a ricompense uniche. Ne vale davvero la pena: un arco leggendario, accompagnato da un mistico amuleto narrato dai cantastorie locali e ottenuto già nelle prime ore, si è rivelato una delle armi più efficaci dell’intera avventura, fedele fino alle battute finali; allo stesso modo, un’armatura recuperata da una quest che avrei potuto ignorare con leggerezza si è dimostrata fondamentale per superare le ultime sfide, quando le armi da fuoco dominano il campo di battaglia.

Con il Ray Tracing attivo la qualità grafica è mozzafiato. Peccato per i 30fps su PS5 base.

Alcune missioni secondarie possono persino condurre allo scontro con il boss più potente del gioco, un’esperienza che vi consiglio caldamente (e non uso questo avverbio a caso: capirete da soli perché) di riservare all’endgame. Il titolo offre una libertà di esplorazione guidata al fine di massimizzare il senso della scoperta senza deragliare dalla missione principale: Atsu può inizialmente girovagare attraverso tre grandi regioni, potenziarsi come preferisce e abbattere due dei Sei di Yōtei prima di inoltrarsi negli ultimi capitoli. È uno dei momenti più riusciti del gioco, ricco di potenti armi secondarie e amuleti da scovare con frequenza e senso di progressione, oltre a numerose occasioni per approfondire il legame della protagonista con il proprio passato. In questo contesto spicca la padronanza dell’hardware PS5 da parte di Sucker Punch: i caricamenti fulminei non solo rendono immediati gli spostamenti rapidi, ma permettono in alcune sezioni di passare in tempo reale dall’Atsu adulta alla sua controparte bambina, semplicemente sfiorando il touch pad. Un espediente narrativo che funziona alla perfezione e restituisce un impatto emotivo notevole. E poi c’è la Lupa, incarnazione del lato più selvaggio di Ezo. La incontrerete esplorando le sue tane, dove vi chiederà aiuto per abbattere i bracconieri di Lord Saitō e liberare i suoi compagni.

La storia di Atsu è più personale e coinvolgente rispetto a quella di Jin, ed è raccontata attraverso ricordi e intermezzi che gettano luce su quella notte fatidica.

Ogni vittoria rinsalderà il legame tra lei e Atsu, fino a trasformarla in una vera sorella d’armi, sempre pronta a intervenire in battaglia e persino a salvarle la vita nei momenti che precedono un colpo fatale. Il costante senso di scoperta va di pari passo con una generosa distribuzione di ricompense e opportunità di crescita, una formula che funziona piuttosto bene. Ho impiegato circa quaranta ore per completare l’avventura, affrontandola dall’inizio alla fine al livello Difficile: sono morto moltissime volte, ma proprio per questo ho assaporato ogni vittoria, prendendomi il tempo necessario per andare a caccia di potenziamenti con cui tornare in azione sempre più preparato. Sul piano narrativo la storia forse avrebbe potuto chiudersi un po’ prima: ci sono momenti che sembrano inseriti più per dilatare la durata che per reale esigenza drammatica, ma l’eleganza e l’impegno richiesto dal sistema di combattimento sono bastati a mantenermi coinvolto fino ai titoli di coda. Questo, unito alla pregevolissima presentazione audiovisiva, riesce addirittura a superare l’incantevole esperienza offerta dal predecessore cinque anni fa, grazie a una cura maniacale per i dettagli e a una messa in scena capace di sorprendere puntualmente.

In alcune aree basta sfiorare il touch pad per tornare letteralmente bambini ed esplorare il passato.

Galoppare tra turbini di foglie d’acero mentre le gru rosse si levano in volo impaurite, o attraversare una pianura sconfinata in compagnia di branchi di cavalli selvaggi, regala momenti spettacolari e colmi di genuino stupore che trovano un contraltare nel combattimento, crudo e ricco di particolari. Gli schizzi di sangue che macchiano la neve mentre questa arriva a cingere le ginocchia di Atsu sono pura poesia visiva, e contribuiscono a un’estetica che non rinuncia mai alla teatralità, soprattutto negli scontri con i boss. La passione musicale della protagonista si riflette nello shamisen che porta sulle spalle e trova eco in un accompagnamento sonoro raffinato, che mescola strumenti tradizionali con un doppiaggio giapponese intenso e imponente.

Ghost of Yōtei è più grande del suo predecessore, non tanto per l’estensione della mappa quanto per la sua densità.

A completare il quadro ci sono tre filtri estetici pensati per esaltare l’atmosfera: torna il bianco e nero sporco della modalità Kurosawa; si aggiunge l’omaggio a Takashi Miike, che trasforma l’esperienza in un tripudio di violenza cruda, sangue e sporcizia, sottolineato da inquadrature ravvicinate e dinamiche; infine, l’opzione Watanabe rende tributo al creatore di Samurai Champloo, arricchendo l’avventura con una colonna sonora lo-fi che dona al gioco un’atmosfera assolutamente unica. Volendo, questi tre approcci possono essere combinati, offrendo una personalizzazione estetica adatta a ogni palato.

L’OMBRA DEL MONTE YŌTEI

Ghost of Yōtei non è un gioco perfetto. La strategia dei Sucker Punch appare chiara sin dalle prime ore: potenziare in modo deciso i punti di forza del precedente blockbuster evitando però di correre rischi eccessivi. Se quanto detto finora lo rende senza dubbio un titolo da prendere in seria considerazione, è altrettanto vero che alcuni limiti già presenti in Ghost of Tsushima tornano a farsi sentire. L’elemento stealth, ad esempio, soffre ancora della stessa ingenuità: i nemici restano fessacchiotti poco reattivi e robotici nei movimenti, incapaci di notare Atsu che ondeggia su un cavo a pochi metri dalle loro teste, esattamente come cinque anni fa. Anche l’esplorazione a piedi mostra i suoi anni, con arrampicate guidate dai soliti appigli fin troppo evidenti e rami messi lì per indirizzare il rampino a prova di errore, una meccanica vista e rivista in decine di altri titoli, priva di reale sfida o tensione. Mancano trovate capaci di rinfrescare la formula, come un indicatore della resistenza da gestire, elemento che in Breath of the Wild aveva dimostrato quanto basti un’idea semplice ma concreta per anche solo provare a reinventare l’approccio all’open world, oggi disperatamente bisognoso di nuova linfa. Il passaggio generazionale avrebbe potuto spingere a sfruttare la potenza extra di PS5 per introdurre guardie più intelligenti e routine più elaborate, capaci di rendere memorabile ogni infiltrazione; invece, lo sforzo sembra essersi concentrato soprattutto sul perfezionare gli aspetti in cui Ghost of Tsushima, nel bene e nel male, brillava già.

Le armature offrono bonus cumulativi a ogni potenziamento. Con il qui presenti kimono cremisi neppure la morte vi sentirà arrivare.

Anche il sistema di combattimento, per quanto raffinatissimo, perde qualche colpo negli scontri contro gruppi numerosi a causa dell’assenza di un vero e proprio lock-on, un vecchio problema reso ancora più evidente dalle inquadrature ipercinetiche e ravvicinate della modalità Miike. È vero, sono presenti indicatori che avvertono Atsu di un attacco imminente, ma la nuova concezione del combattimento – basata su un arsenale di armi multiple da intercambiare rapidamente contro avversari molto diversi – rischia di trasformarsi in un’esperienza più frustrante che appagante ai livelli di difficoltà più ripidi.

La passione musicale della protagonista trova eco in un accompagnamento sonoro raffinato, che mescola strumenti tradizionali con un doppiaggio giapponese intenso. 

Complessivamente Ghost of Yōtei percorre la stessa strada del suo predecessore: un titolo superiore alla somma delle sue parti, divertentissimo da giocare e capace di conquistare gli appassionati di storia giapponese grazie a un’ambientazione che restituisce l’anima di un territorio raramente esplorato nei videogiochi. A parte Nakoruru di Samurai Spirits, quante altre volte vi siete imbattuti nella cultura Ainu in questo medium? Eppure, nonostante la solidità dell’esperienza e il fascino indiscutibile del contesto, difficilmente il gioco verrà ricordato come una nuova pietra miliare.

In Breve: Ghost of Yōtei è un progetto ambizioso, capace di capitalizzare i successi di Ghost of Tsushima e allo stesso tempo di costruirsi un’identità propria, radicata nel contesto culturale degli Ainu e nell’Hokkaidō del XVII secolo. La protagonista Atsu è un personaggio riuscitissimo: forte, coerente e animata da una motivazione limpida, porta avanti la narrazione con intensità senza mai sembrare la controparte femminile di Jin. Il sistema di combattimento evolve la formula del predecessore, aggiungendo varietà e un ritmo più serrato, mentre il mondo di gioco si presenta ricco e denso, in grado di premiare l’esplorazione tanto con potenziamenti concreti quanto con trovate narrative come il legame con la Lupa, tra le idee meglio realizzate. Sul piano estetico e sonoro, il titolo raggiunge uno degli apici dell’attuale generazione: dai filtri visivi di grande personalità a una colonna sonora ispirata, fino a una direzione artistica sempre teatrale, Ghost of Yōtei sa incantare con continuità. Restano tuttavia limiti che tradiscono l’eredità del passato, tra uno stealth ancora poco brillante e meccaniche esplorative datate. Nel complesso è un gioco che diverte e coinvolge, superiore alla somma delle sue parti, ma che preferisce la via della prudenza a quella della rivoluzione.

Piattaforma di Prova: PS5
Com’è, Come Gira: Il gioco propone tre modalità grafiche principali: la modalità Qualità punta ai 4K nativi, sacrificando però la fluidità, che si assesta sui 30fps; la modalità Prestazioni abbassa la risoluzione per garantire i 60fps, risultando ideale per chi privilegia reattività e dinamismo; infine, l’attivazione del Ray Tracing aggiunge effetti di illuminazione avanzati e riflessi realistici, ma mantiene i fotogrammi sui 30fps. Personalmente ho scelto la modalità Prestazioni su un pannello OLED 4K, un compromesso che si è rivelato azzeccato: l’esperienza è generalmente fluida e cinematografica, con cali di frame così sporadici da non disturbare mai realmente l’azione. Da segnalare la ricca dotazione di opzioni per l’accessibilità, pensate per rendere il gioco fruibile anche a giocatori con disabilità, mentre il DualSense viene utilizzato in maniera contenuta. Brevi momenti in prima persona, come accendere un falò o cucinare, offrono vibrazioni e feedback tattili che, pur semplici, aggiungono un tocco di atmosfera e contribuiscono a rendere l’esperienza più immersiva.

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Pro

  • Sistema di combattimento vario, profondo e gratificante / Presentazione audiovisiva di altissimo livello / Protagonista carismatica e credibile / Bene o male migliora tutto quello che ci piaceva in Ghost of Tsushima

Contro

  • Intelligenza artificiale dei nemici deludente nelle meccaniche stealth / Parte dell'esplorazione resta legata a meccaniche datate / Per l'amor del cielo, giocatelo subito a Difficile!
9.3

Ottimo

Il retrogamer della redazione, capace di balzare da un Game & Watch a un Neo Geo in un batter di ciglio, come se fosse una cosa del tutto normale. Questo non significa che non ami trastullarsi anche con giochi più moderni, ma è innegabile come le sue mani pacioccose vibrino più gaudenti toccando una croce digitale che una levetta analogica.

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