Al totale suono del punk, del rock e di una dose smodata di dubstep, Robobeat è il roguelike con meccaniche da sparatutto in prima persona che dimostra quanto l’originalità sia una merce rara, in questo bel panorama.
Sviluppatore / Publisher: Inzanity e Simon Fredholm / Kwalee Prezzo: ND Localizzazione: Assente Multiplayer: Assente PEGI: 18 Disponibile su: PC (Steam) Data d’uscita: 16 maggio 2024
Se potessi raccontare come ho passato le ultime settimane, direi scherzosamente che ho messo mano a un maniero, che ho vestito i panni di un pagliaccio e che ho, ovviamente, indossato gli stracci di Melinoe, la figlia di Ade, protagonista assoluta di Hades II, la nuova opera di Supergiant Games. In tal senso, non sono poi andato fin troppo lontano dal genere, come potete leggere: Robobeat, per l’appunto, è un roguelike. Non un roguelike con visuale isometrica, per intenderci.
Il giochillo di cui vi sto parlando è in prima persona, frenetico come un DOOM e complesso e tecnico quanto Metal: Hellsinger, che spero abbiate giocato su PC, PlayStation e Xbox. Nel caso non lo aveste fatto, nessun problema: c’è Robobeat che, proprio come quest’ultimo, sa come proporsi egregiamente, dimostrandosi maturo. Ad averci lavorato sono Inzanity e il suo fondatore, ovvero lo sviluppatore Simon Fredholm, che ha curato ogni aspetto dell’opera, dalla musica elettronica e punk, che sa sempre come mettere in palpitazione il ritmo dentro di noi, agli aspetti più tecnici e complessi del game design. È tutto a portata di robot, infatti. O, chissà, tra le mani di un essere umano. Dipende dal sound.
DIVENTARE UN ROBOT
Le grandi opere dello scenario cyberpunk, che hanno sempre contraddistinto negli ultimi anni lo sviluppo di tante produzioni videoludiche, si collocano nella libreria videoludica di tutti in un posto speciale. Ammetto che, però, non ho apprezzato Cyberpunk come avrebbe meritato. Questo non è importante, soprattutto per il violento e sempre armato Ace, il protagonista cibernetico di Robobeat, costretto a trovare una via di fuga in un mondo uscito direttamente fuori da un libro di Orwell, anche se la mano potrebbe ricordare Asimov. È un mondo dominato dalla tecnologia, quello proposto dal creatore di quest’opera folle che, oltre a coinvolgere ed esaltare, sa come mettere alle strette il giocatore. E, lo ammetto, sono stato messo in difficoltà lungo tutta la prosecuzione, con quattro stage (pochi, direbbe qualcuno, ma sono complessi da imparare) da affrontare e un numero esagerato di nemici che però non perdono sangue, bensì particellari, morendo in quello che appare un mondo creato da un’intelligenza artificiale scontenta e annoiata dalla creatura che ha creato.
Ebbene, in Robobeat non c’è da aspettarsi una trama intricatissima né un aspetto narrativo eccessivamente complesso: la produzione predilige seguire stilemi già visti, non apportando nulla di nuovo. È il contesto che attrae, edificato su un approccio videoludico che chiunque, specie gli appassionati di roguelike, riconosce senza fin troppi problemi. In questo mondo fatto di colori, esplosioni e morti, l’unico a tessere il racconto è il giocatore, la sua propensione a muoversi in questo mondo e il suo talento. Come accennavo, s’indossano i panni di un robot che si ritrova, suo malgrado, a dovercela fare: il buon Ace, pur essendo silenzioso e concentrato sulla sua missione, è un protagonista che sa davvero il fatto suo, pur non trucidando cosa si trova davanti né commettendo un massacro dopo l’altro senza un motivo specifico.
In Robobeat non c’è da aspettarsi una trama intricatissima né un aspetto narrativo eccessivamente complesso
UNA BOMBA CHIAMATA ROBOBEAT
Siete appassionati di Angelina Mango? Vi piacciono i Motorhead? Non potete fare a meno dei Blink 182? Vorreste che Skrillex non smettesse mai con la musica? In Robobeat, oltre a dover tenere conto di sopravvivere, è necessario essere al tempo giusto con le cassette per riuscire a triturare al meglio i nemici che potreste trovarvi davanti. Ora, sia chiaro: che la produzione sia uno sparatutto in prima persona à la POST VOID, altra opera che connette gli FPS e il genere roguelike, è positivo per uno che vive di queste opere.
La produzione, tuttavia, è un ibrido perfettamente in linea con altre opere di notevole calibro come Hades, perché presenta un sistema che riesce a essere ben amalgamato con la sua anima roguelike, prendendo poi il meglio dai videogiochi ritmici come Metal: Hellsinger. Si dimostra originale per il susseguirsi di situazioni che si presentano, con nemici sempre pronti a dare battaglia al protagonista e fare pure peggio. In tal senso, il game design di Robobeat s’incastra perfettamente con una varietà di run che ho visto solo in opere come Curse of the Dead Gods, altra opera illustre che merita tante belle parole. Creare una produzione del genere, riuscendo a dare vita a un universo costantemente sul filo del rasoio, non è da tutti. In Robobeat, infatti, si spara tantissimo e si percorrono strade non sempre uguali.
Il game design di Robobeat s’incastra perfettamente con una varietà di run che ho visto solo in opere come Curse of the Dead Gods
CREARE L’ESTASI DELLA BATTAGLIA
Complice una direzione artistica di grande impatto, Robobeat è visivamente un sogno a occhi aperti. Al primo avvio, lo ammetto, sono stato conquistato subito dalla sua grafica che riempie lo schermo con mille e più colorazioni. Riuscire a essere comunque sul pezzo, in un genere complesso e immenso come il roguelike, non è una cosa comune, specie se si osserva quanto sia complesso, ora, riuscire a venderne uno.
Tutti siamo dei Deadpool cui piace la dubstep. E oggi, soprattutto oggi, si sente già odore di Natale
In Breve: Robobeat è una produzione originale che ammicca suadente a POST VOID ma segue una linea strutturale completamente opposta, riuscendo nel complesso ma fantastico compito di dimostrarsi ben matura e coinvolgente. È complesso, ma non è un problema: serve impratichirsi, imparare al meglio le mosse giuste e riuscire, ovviamente, ad azzeccare ben più di una nota. Serve uccidere.
Piattaforma di gioco: PC
Com’è, come gira: Ottimamente, tanto che non ho mai avuto problemi di alcun genere. L’opera spacca i sessanta fotogrammi al secondo.