Ho giocato Secret of Mana nella sua incarnazione americana con un filo di ritardo, nell’estate del 1995. Avevo scovato da poco un nuovo, bellissimo negozio di videogiochi straripante di titoli d’importazione e mi era venuta la voglia di far mio quel titolo tanto desiderato durante gli esami di maturità. Un’idea bellissima: non ricordo neppure lontanamente in cosa consistesse la prova d’esame, perché la mia mente era fissa su Secret of Mana, in qualunque momento. Sì, anche durante la notte prima degli esami, e Venditti muto! Che poi fu solo l’inizio della scorpacciata, dacché quell’autunno lo passai all’insegna di Final Fantasy III (o VI, fate voi) e Chrono Trigger, in nome di un Super Famicom che proprio non aveva voglia di cedere il passo alla rivoluzione insistentemente profetizzata da Sony e SEGA.
UNA TAVOLOZZA SBIADITA
Secret of Mana è la tipica fiaba arturiana dove un orfano estrae una spada magica dalla roccia prima di incontrare una belligerante dama e uno spocchioso folletto. A questi si aggiunge un impero malvagio che vuole resuscitare un’arma ancestrale, donando alla storia quel fascino in perfetto stile Studio Ghibli che aggiunge davvero tanto all’atmosfera. E poi c’è lo squisito gusto che Squaresoft ha saputo instillare in una grafica bidimensionale semplicemente impeccabile, consegnando alla storia un risultato che spinge a chiedersi come sarebbe stato il gioco nella forma definitiva, inizialmente concettualizzata da Koichi Ishii prima che il CD-ROM per Super Famicom si trasformasse in vaporware, costringendo il team a tagliare il progetto originale per farlo entrare in una “misera” cartuccia.
La sensazione che si tratti di un gioco realizzato con un budget limitato è impossibile da fugare
RUSTY SWORD
A parte questo, scoccia vedere che, nonostante gli anni, alcune scelte scomode come l’interfaccia dei negozi non siano state corrette; oggi come allora è infatti impossibile visualizzare in anteprima i bonus garantiti dai singoli pezzi d’equipaggiamento, costringendoci dunque ad acquistare alla cieca, affidandoci alla regola “se è nuovo, allora è più potente di quello che indosso”. Stesso discorso per i due personaggi che accompagneranno il protagonista Randi nella sua avventura, destinati a restare bloccati dietro innumerevoli muri a causa di routine di pathfinding a dir poco amatoriali. È sempre possibile impersonare i compagni in qualunque momento per rimetterli sulla carreggiata o – ancora meglio – affidare il loro controllo a due amici come ai vecchi tempi e senza il bisogno di comprare un multi-tap, ma ciò non toglie che – nove volte su dieci – paiono governati da una vera e propria demenza artificiale. Il sonoro se la cava meglio, anche perché la colonna sonora remixata può cedere in ogni momento il passo a quella classica firmata da Hiroki Kikuta.
il gioco è sempre lui, con una trama affascinante nella sua solo apparentemente leggerezza e un sistema di combattimento in tempo reale ancora divertente
A mio avviso un remake ha senso quando riesce a migliorare significativamente la formula originale, e non è questo il caso. È più probabile avvistare il Papa intento a pogare durante un concerto dei Black Sabbath che vedermi raccomandare un emulatore al posto dell’hardware originale su tubo catodico, ma davvero vi consiglio di giocarvelo su un Super Nintendo Classic Mini in mancanza di meglio. Credo che l’aggettivo più adatto a descrivere questo remake sia “superfluo”, e che dovreste farlo vostro solo se non avete altri modi per giocare l’originale. Ah, un’ultima cosa: ho sentito innumerevoli lamentele riguardanti fastidiosi crash, tuttavia non ne ho riscontrato neppure uno durante la mia prova. Nel dubbio, salvate ogni volta che potete.